15:37 martedì, 27 maggio 2025
La 78ª edizione del Festival francese è stata vinta dall’iraniano It Was Just An Accident del regista Jafar Panahi. Una scelta a suo modo politica, in linea con il resto di un palmarès molto meno pop rispetto agli ultimi anni.
Il Festival di Cannes, insieme a quello di Venezia, è da sempre uno dei luoghi chiave dove si delineano le tendenze del cinema che verrà. È qui che spesso emergono i film e gli autori destinati a far discutere nei mesi successivi, a influenzare la stagione dei premi internazionali (come gli Oscar) o addirittura a conquistare il grande pubblico.
Basti pensare a successi recenti come «Parasite» o «Anora», capaci di unire il plauso della critica a un’inedita popolarità globale. Quest’anno, però, il palmarès sembra orientarsi in una direzione più riflessiva e politica, premiando opere che difficilmente conquisteranno l’attenzione del pubblico generalista, ma che segnano comunque un momento importante per il cinema d’autore contemporaneo.
A vincere la Palma d’oro del 78° Festival di Cannes, nel corso della cerimonia conclusiva andata in scena nella serata di sabato 24 maggio 2025, è stato «It Was Just an Accident» del regista iraniano Jafar Panahi, autore simbolo della resistenza culturale contro la censura nel proprio paese. Il film, tra dramma e noir, affronta temi morali complessi a partire da un banale incidente stradale, continuando idealmente il discorso cominciato con «Gli orsi non esistono».
Il riconoscimento assume un valore ulteriore se si considera che per la prima volta Panahi ha potuto lasciare l’Iran per partecipare al festival, dopo anni di divieti, arresti e film girati clandestinamente. Il suo discorso di ringraziamento - «Il cinema è una società. Nessuno ha il diritto di dirci cosa dovremmo fare o astenerci dal fare» - ha incarnato perfettamente lo spirito con cui la giuria ha interpretato questa edizione. Con questo premio, inoltre, Panahi è entrato ancora di più nella storia del cinema europeo: è l’unico regista insieme a Michelangelo Antonioni ad aver vinto il Leone d’Oro della Mostra del Cinema di Venezia, l’Orso d’Oro della Berlinale, il Pardo d’Oro del Festival di Locarno e ora anche la Palma d’Oro di Cannes.
Quella della giuria guidata da Juliette Binoche (con membri come Alba Rohrwacher, Halle Berry, Jeremy Strong e Hong Sang-soo) è stata infatti una scelta coerente e fortemente orientata verso un’idea di cinema impegnato, che guarda alla memoria, alle fratture familiari, ai traumi collettivi.
Il Grand Prix è andato al norvegese Joachim Trier per «Sentimental Value», che ritrova la protagonista Renate Reinsve in un nuovo racconto sulla famiglia e sul dolore, mentre il Premio della Giuria è stato assegnato ex aequo a «Sirât» di Oliver Laxe e a «Sound of Falling» di Mascha Schilinski, due opere che intrecciano intimità e identità in contesti molto diversi — il Marocco post-rave e la Germania rurale attraversata da epoche diverse.
Anche il resto del palmarès segue questa linea: miglior regia al brasiliano Kleber Mendonça Filho per il thriller politico «L’agente segreto», ambientato durante la dittatura, e miglior attore a Wagner Moura per lo stesso film, forse quello che riuscirà a intercettare più facilmente l’interesse del grande pubblico. Miglior attrice è Nadia Melliti per «La petite dernière», diretto dalla franco-algerina Hafsia Herzi, mentre la miglior sceneggiatura è andata ai fratelli Dardenne per «Jeunes Mères», nuovo capitolo del loro cinema sociale e umanista. La Caméra d’or per la miglior opera prima, assegnata dalla giuria guidata da Alice Rohrwacher, è andata all’iracheno «The President’s Cake» di Hasan Hadi.
Un palmarès dunque ricco di cinema europeo e mediorientale, che lascia però fuori alcuni dei nomi più attesi di quest’edizione. Nessun premio è andato a «The Phoenician Scheme» di Wes Anderson (alla sua quarta volta in concorso), né ad «Eddington» di Ari Aster, film sulla pandemia che poteva contare nel cast Joaquin Phoenix e Pedro Pascal, e nemmeno ad «Alpha» di Julia Ducournau, che dopo la Palma d’oro con «Titane» torna con un dramma ambientato negli anni ‘80 e l’epidemia da AIDS.
Eclissati anche altri grandi autori americani Richard Linklater («Nouvelle Vague», che tuttavia ha ricevuto reazioni entusiaste soprattutto dalla critica italiana), così come i titoli italiani presenti in concorso e fuori concorso — «Fuori» di Mario Martone per il concorso principale (già al cinema in questi giorni), «Testa o croce?» di Rigo de Righi e Zoppis, «Le città di pianura» di Francesco Sossai per la sezione Un Certain Regard — che non hanno raccolto riconoscimenti.
Questa assenza, soprattutto per il cinema americano, suggerisce quindi una distanza tra le proposte hollywoodiane (o legate ad autori statunitensi già affermati) e la sensibilità della giuria di quest’anno.
Il 78° Festival di Cannes ha scelto di premiare un cinema che guarda ai conflitti, alle ferite, alle zone d’ombra della società, spesso con sguardi provenienti da paesi marginalizzati nei grandi circuiti. Temi che sono ripetutamente emersi nel corso della kermesse, segnata dalle polemiche e dai messaggi di sensibilizzazione verso situazioni tragiche come quella in corso a Gaza Una scelta forse meno «pop» rispetto ad altre edizioni («Anora» di Sean Baker, Palma d’Oro 2024, ha poi trionfato anche agli Oscar 2025), ma che punta a ribadire il ruolo politico e culturale che il festival e in generale il cinema come arte espressiva continua a voler giocare nel panorama internazionale